Il 23 aprile scorso ho preso un taxi alle tre del mattino e ho passato la giornata in viaggio, destinazione Atlanta: mi aspettava una due giorni di full immersion in Mailchimp, un evento destinato a un piccolo gruppo di partner provenienti un po’ da tutto il mondo.
A inizio aprile avevo scritto nella mia newsletter:
“Questo invito arriva in un momento in cui il mio amore per Mailchimp è un po’ logorato, come in quei fidanzamenti di lungo corso in cui, dopo aver tergiversato per anni, lui ti invita a casa dei suoi proprio mentre tu stai iniziando a chiederti se è quello giusto.”
Beh, ce l’hanno messa tutta per farmi reinnamorare, riempiendo me e gli altri invitati di mille attenzioni, regali, coccole e soprattutto facendoci conoscere da vicino un’azienda che ha davvero un carattere inconfondibile e, ai miei occhi, adorabile.
Nella chiacchierata coi due fondatori, Ben Chestnut e Dan Kurzius, il punto che i due hanno rimarcato con forza è la loro ferma convinzione che il cliente che vogliono servire meglio sono gli small business: anche, anzi soprattutto, quelli piccolissimi.
La madre di Ben faceva la parrucchiera in casa, il padre di Dan era un fornaio; entrambe le famiglie hanno vissuto l’esperienza del fallimento, non quello cool degli startupper, ma quello sfigato di chi deve chiudere i battenti di un negozio. Le vicende familiari hanno portato Ben e Dan a voler creare uno strumento semplice da usare e alla portata di chi deve crescere, ma al tempo stesso ha mille cose a cui pensare.
I due sono partiti intorno al 2000 con un piccolo studio web e l’hanno fatto diventare un’azienda da 1000 persone, sempre facendo tutto il contrario di quello che prescrivono i manuali delle startup: niente finanziatori esterni e scelte guidate più dalla cultura aziendale (“come vogliamo essere”) che dai grafici dei dati; un’azienda che ha avuto da subito un carattere tutto suo, assolutamente distinguibile dalle mille piattaforme software tutte uguali, tutte un po’ noiose.
La sede è all’interno del Ponce City Market, un enorme edificio in mattoni costruito a fine ‘800 per ospitare i magazzini di Sears; dentro ci sono altri uffici, piccoli negozi, posti dove mangiare. Alcuni consulenti li avrebbero voluti trasferire in un polo tecnologico, ma loro hanno risposto che hanno più bisogno di creatività che di tecnologia, quindi preferiscono stare lì.
E in effetti di creatività se ne respira tanta, fra opere di artisti emergenti, un’organizzazione degli spazi flessibile che permette sia di mescolarsi sia di lavorare in aree più silenziose e riservate, mille rimandi al fatto che l’azienda vive all’interno di una comunità, quella di Atlanta, a cui contribuisce in vari modi: dagli incentivi per andare al lavoro in bici (la usa il 30% dei dipendenti, e ce ne sono a disposizione di chi ha bisogno di spostarsi durante la giornata) al supporto al Pride che si svolge ogni anno in autunno.
Sia io che gli altri partner invitati avevamo una lista di domande, segnalazioni, desiderata; ne abbiamo discusso in varie occasioni, con molta franchezza, insieme a persone dei team di sviluppo, assistenza, compliance, e abbiamo anche avuto un’anteprima di quel che sarà il prossimo grande cambiamento in arrivo, di cui per il momento siamo tenuti a non anticipare nulla (sorry, non posso neanche in privato).
Quel che posso dire è che su vari punti — in particolare l’annosa questione delle Automation — c’è una roadmap di sviluppi e implementazioni in corso e anche una buona disponibilità all’ascolto dei feedback. Ci hanno anche promesso un accesso alla beta del nuovo pannello di controllo delle Automation, non vedo l’ora di vederla coi miei occhi.
Molti dei punti che ho riportato io (la necessità di avere più logica nelle automazioni, di poter tracciare eventi legati alla navigazione nei siti, una maggior flessibilità dei tag, l’assurdo limite su quante volte una stessa Automation può partire) erano condivisi anche dagli altri partner, e io voglio sperare che, se spendi un botto di soldi per invitare 20 persone da tutto il mondo e farti raccontare che problemi ed esigenze sperimentano ogni giorno lavorando con la tua piattaforma, poi questi feedback “esperti” tu li voglia davvero usare.
L’intento è chiaro: dare ai piccolissimi una piattaforma unificata che gli semplifichi la vita e consenta di tenere sotto controllo, in un unico pannello, varie attività di marketing integrate fra loro. Poi, off the records, tutti sanno bene che le campagne Facebook create in quel modo non sono particolarmente ottimizzate e tutti quelli che “fanno sul serio” gestiscono l’advertising o dalle piattaforme native, o con strumenti ad hoc.
Tuttavia, se il tuo budget adv è di poche decine di euro al mese, la differenza in termini di risultati fra creare le campagne dentro a Mailchimp e farlo “come si deve” dal Business Manager non è detto che valga l’investimento in tempo o in collaboratori esterni che ci dovresti mettere; e in ogni caso, sempre meglio studiare prima di scegliere (un ottimo punto di partenza è il corso online sul Facebook Marketing di Luca Barbi che puoi acquistare su Digital Update).
Non avevo particolari aspettative su Atlanta, ma quando si è trattato di pianificare il viaggio mi sono detta “ok, già che ci vado, mi regalo una notte extra in hotel per dare un’occhiata in giro”. Ho fatto bene, perché quello che ho visto mi è piaciuto moltissimo.
Tanto verde da farla soprannominare the city in the forest, Atlanta è un mix di grattacieli e case in mattoni, a cavallo fra l’Ottocento e i primi del Novecento. Ho macinato decine di migliaia di passi a piedi per Downtown e Midtown; una parte di questi li ho fatti camminando lungo la Belt Line, il tracciato della vecchia circolare che è in corso di trasformazione in un parco arricchito di installazioni e opere d’arte varia, su cui si affacciano gallerie e locali.
Atlanta è la città natale di Martin Luther King e la sua storia è strettamente legata alle lotte dei neri d’America. Letteralmente rinata dalle ceneri dopo la Guerra di Secessione, è sempre stata una città un po’ diversa dal resto del Sud, e la scelta di favorire uno sviluppo di tipo industriale staccandosi dal “modello piantagioni” favorì a fine ‘800 l’afflusso di un gran numero di neri, ex schiavi e loro figli.
In quel contesto “too busy to hate” la comunità nera diede vita a molte importanti scuole, università, associazioni, congregazioni e anche imprese; nel 1956 Fortune Magazine definì Auburn Avenue, centro del quartiere nero, “the richest Negro street in America” (sì, fino agli anni ’60 la n-word veniva tranquillamente usata da tutti).
Tutta questa storia viene raccontata in modo straordinario dentro al Civil and Human Rights Museum, dove puoi ascoltare discorsi assurdi nei video dei politici segregazionisti degli anni ’50 e ’60, immergerti nell’atmosfera della Marcia di Washington, e anche farti un’idea di cosa significa stare seduti in un autobus nel posto “sbagliato” resistendo alle urla minacciose di gente che aspetta solo un pretesto per linciarti.
Molti di questi temi riecheggiano anche nelle sale dell’High Museum of Art, altro posto che merita sicuramente una visita: una straordinaria collezione di arte africana, una altrettanto interessante di artisti autodidatti (molti della comunità nera) e, in questo periodo, una mostra di capolavori dell’arte europea che lévati (ci sono entrata quasi controvoglia, “tanto ho già visto di tutto”, poi dentro c’erano Monet, Degas, Kandinsky, Braque, Picasso, da rilucidarsi gli occhi).
Verso la fine degli anni ’60 una serie di incendi devastò l’area di Midtown; negli anni successivi in quella zona abbandonata e depressa si trasferirono molte persone della comunità LGBTQ, che in pochi anni trasformarono Midtown in un centro pulsante di iniziative culturali improntate all’apertura e alla tolleranza.
Oggi Midtown è un quartiere meraviglioso, in cui ci sono stati investimenti importanti e in cui “succedono cose”, ma in un contesto accogliente: “Big city life, neighborhood feel”, recita uno dei mille cartelli che costellano i lampioni dei viali (*). Resta il centro della comunità LGBTQ e in autunno, nell’enorme Piedmont Park, ospita uno dei Pride più grandi degli USA.
Quando cammini per Midtown Atlanta, a ogni lampione un’insegna ti ricorda in che quartiere fantastico stai girando e come puoi viverlo meglio, visitando musei e parchi, muovendoti senza automobile: a piedi, in bici, sui monopattini elettrici, tuoi o presi a noleggio.
Camminando, pensavo che anch’io vivo in una città bellissima e mi farebbe bene che me lo ricordassero, che ce lo ricordassimo tutti più spesso, io e i miei concittadini: capita anche a te?
Strapazzata nel fisico ma rigenerata nello spirito, eccomi di nuovo qua, con moltissime idee da mettere in pratica e, proprio dietro l’angolo, il Freelancecamp.
L’ho raccontato ad Atlanta, nella sessione iniziale in cui ciascuno di noi si è presentato agli altri, e in quel momento mi sono resa conto di che cosa grandissima abbiamo creato in questi anni: centinaia di persone che si sono conosciute, hanno imparato dalle storie di tutti, hanno creato relazioni e progetti insieme. “Listen hard, change fast” è uno dei motti di Mailchimp, ma potrebbe essere anche il nostro, perché ogni anno non ci stanchiamo di interrogarci su come cambiare, in meglio, questa occasione fantastica di incontro.
Mailchimp sta lanciando un palinsesto ricchissimo di contenuti branded, raccolti sotto il titolo Mailchimp presents: ci sono varie produzioni video e un podcast, Going through it, in cui la giornalista Ann Friedman intervista donne di ogni tipo (dall’insegnante di yoga a Hillary Clinton).
Ciascuna di loro racconta un momento in cui ha dovuto fare una scelta difficile: se tener duro o lasciare andare. In ciascuna di queste storie, riascolto momenti della mia vita o della vita di persone che conosco: sono le storie che insegnano, che è poi una delle tracce che proponiamo per i talk al Freelancecamp. Buon ascolto!