(Questa è la traccia del mio intervento a BTO2017 sul tema della deliverability) — in caso di fretta, in fondo c’è il video.
Nell’email marketing il successo o il fallimento di una campagna sono il risultato di una serie di eventi, l’uno successivo all’altro.
Un’email ottiene un risultato se:
Perché tutto questo succeda, però, c’è un presupposto iniziale: che il nostro messaggio sia arrivato a destinazione.
E questo è un fatto che non possiamo più dare per scontato da tempo, perché, via via che il traffico di email è aumentato negli anni fino a raggiungere proporzioni colossali, anche la posta elettronica ha iniziato a perdersi per strada, un po’ come le nostre lettere e pacchi affidate alle Poste Italiane o a corrieri poco seri.
Secondo le stime di ReturnPath, che ogni anno pubblica un report sulla deliverability a livello globale, circa il 20% delle email commerciali non arriva nelle caselle di destinazione.
Un quinto dei soldi che si spendono per spedire DEM e newsletter, quindi, è buttato, senza che nemmeno sappiamo quantificare bene quanti dei nostri messaggi non arrivano, dato che non c’è modo di controllare una per una le caselle dei nostri destinatari.
Come fa ReturnPath a fare queste stime?
Quando noi facciamo partire la nostra campagna email, i report ci forniscono tre dati: il bounce rate, l’open rate e il click through rate. Ma la differenza fra i messaggi “non rimbalzati” e quelli aperti è una zona grigia di messaggi non aperti, e noi non sapremo mai con esattezza se non sono stati aperti perché chi li ha ricevuti li ha considerati poco interessanti, o se proprio non li ha mai visti.
Ci rendiamo conto di avere un problema solo quando qualcuno ci avvisa che la nostra newsletter è finita nello Spam, o non risulta mai arrivata; oppure quando realizziamo che da un po’ non c’è nessuno che si cancella dalla mailing list: come è possibile che i tassi di apertura siano bassi ma non c’è mai nemmeno una disiscrizione? Forse abbiamo un problema, forse non si cancellano dalla nostra lista perché nemmeno ci vedono più.
Cominciamo innanzitutto a capire come funzionano i filtri che stanno fra noi e la nostra meta; sia i filtri a livello di server, che respingono o fanno passare il messaggio, sia quelli a livello di client, che decidono se un messaggio finisce nello spam o arriva davanti agli occhi del destinatario.
Se teniamo ben presenti questi criteri di valutazione, degli algoritmi e delle persone, impariamo a valutare noi stessi l’affidabilità e l’attrattività delle nostre mail e a migliorarli di conseguenza, seguendo alcune buone pratiche.
Quando usate la posta elettronica per scrivere a tante persone — non parlo dei messaggi individuali, ma di quelli che spedite a una lista, qualunque sia il servizio che usate per farlo — deve sempre trattarsi di persone che vi conoscono e si aspettano che voi gli mandiate una newsletter o una DEM.
L’email non è il canale più adatto per il primo contatto. Al di là degli aspetti legali e del rispetto della legge sulla privacy, la vendita a freddo funziona sempre meno, ammesso che abbia mai funzionato in passato: oggi ciascuno di noi è assediato da tante di quelle pubblicità, offerte commerciali, volantini più o meno digitali, che siamo diventati sempre più ciechi e sordi, o peggio insofferenti a chi ci tira per la giacca o cerca di entrarci in casa mettendo un piede fra lo stipite e la porta.
Quando apriamo la posta elettronica e scorriamo l’elenco dei messaggi da leggere, la prima cosa a cui guardiamo è il mittente; se ci sono messaggi di sconosciuti, siamo disposti ad aprirli se si tratta di email chiaramente scritte da una persona vera, ma se hanno l’aspetto di volantini li cancelliamo con fastidio.
Quindi non andate a rubare in giro indirizzi email, davvero è fatica sprecata, ma nemmeno comprate o affittate liste da altri, anche se vi assicurano che si tratta di persone che hanno dato il permesso di cedere il proprio indirizzo a terzi. È vero che il signor Mario ha dato il permesso a ricevere le offerte commerciali di terzi, però questo è successo mentre stava stipulando al telefono un contratto di tutt’altro tipo e sapeva che durante la registrazione doveva rispondere “sì” a tutte le domande; il signor Mario però non vuole “davvero” ricevere le offerte commerciali dei partner autorizzati, quindi, nel momento in cui riceve la vostra DEM arrivata a sorpresa, si arrabbia perché qualcuno ha venduto il suo indirizzo.
E la brutta notizia è che si arrabbia con voi, non con quelli che si sono presi i vostri soldi per farvi usare l’indirizzo di Mario.
La vostra mailing list deve essere fatta di persone che hanno detto “sì” a una proposta che arriva da voi, una promessa chiara e il più precisa possibile:
Non potete promettere niente perché non sapete bene cosa scriverete? Avete raccolto degli indirizzi senza che vi fosse ancora chiaro come li avreste usati? Eh, allora c’è un problema. Fate i compiti, poi mandate un messaggio speciale per rifarvi vivi e dire “d’ora in poi ti scriverò questo e quello”.
Non dovete scrivere troppo, perché poi diventate fastidiosi e non vi si apre più, ma nemmeno troppo poco, perché dopo qualche mese che non vi fate vivi è possibile che qualcuno si sia scordato di voi. La gente pensa a noi infinitamente meno di quanto crediamo, e magari ha anche i suoi buoni motivi per pensare ad altro, quindi cercate il più possibile di ragionare sui loro tempi, non sui vostri.
Se osserviamo le forme che può assumere l’email marketing — dalle DEM alle newsletter, alle serie di contenuti mandati su richiesta, ai messaggi automatici generati da un evento o da una transazione — c’è un gradiente che va da “messaggi mandati in base al NOSTRO calendario” — le DEM — a “messaggi mandati perché succede qualcosa alla persona che li riceve” — i messaggi automatici e transazionali.
Nel mezzo ci stanno le newsletter, che sono appuntamenti che abbiamo preso di comune accordo — io posso scrivervi una volta al mese, a voi sta bene leggermi una volta al mese — e i contenuti in serie, pronti per essere spediti quando c’è qualcuno che li richiede — tipo la guida di viaggio per prepararsi ad andare a New York.
Come vi potete immaginare, più il messaggio è innescato da qualcosa che succede a chi lo legge e più sarà l’attesa e l’interesse con cui viene accolto; e viceversa.
Se ti fai vivo solo quando hai bisogno tu, non ti puoi aspettare un’accoglienza calorosa.
È per questo che, soprattutto nel settore dei viaggi, io insisto sempre tanto sull’offrire una buona accoglienza e usare le email per mandare qualcosa di utile appena ci si conosce: la guida di viaggio è un esempio, ma può trattarsi anche solo di indicazioni chiare e personalizzate su come arrivare. Se “dopo” ci faremo vivi solo con messaggi email di vendita, almeno che ci sia stato “prima” qualcosa che può innescare il meccanismo della reciprocità, della gratitudine — “mi hai scritto per offrirmi delle informazioni utili, sono disposto a darti attenzione anche quando provi a vendermi qualcosa”.
Fra l’altro, se i primi messaggi che mandiamo sono ad alto tasso di utilità e interesse verranno aperti, cliccati, e magari innescheranno delle risposte: tutti comportamenti che vengono rilevati, registrati come segno di interesse, e abbassano la probabilità che i nostri messaggi successivi finiscano nello spam.
Quasi ogni volta che arrivo da un nuovo cliente trovo liste in cui ci sono percentuali a due cifre di gente che da anni non apre nemmeno un messaggio: ma davvero ha senso continuare a insistere?
Pagate per avere nessun risultato, anzi peggio, spendete soldi ottenendo tassi di apertura così scarsi da peggiorare ulteriormente la vostra reputazione di mittente, col risultato di abbassare anche la percentuale di consegne effettive — perché a un certo punto verrete bloccati dai filtri addirittura a livello di server.
Le liste vanno ripulite, potate e tenute leggere; a chi non vi apre da tempo, potete semmai destinare un ultimo messaggio speciale, per cercare di risvegliare la sua attenzione, ma poi cancellatelo senza troppi rimpianti e concentratevi sui vostri iscritti migliori e su come trovarne di altri più simili a loro.
Quando usate un servizio di mailing esterno — e dovete assolutamente farlo, perché l’email marketing serio si fa usando servizi professionali, non mandando i messaggi in conoscenza nascosta da Outlook — create dei messaggi che hanno nel mittente il vostro indirizzo email, ma che partono dal server del vostro Email Service Provider (ad esempio MailChimp). Se non avete fatto le giuste configurazioni, arrivano così:
Come se Gmail dicesse “questo dice che è partito da lì, ma a me risulta che arrivi da un’altra parte”. I filtri sono come un portiere giustamente diffidente, e questo è uno di quei segnali che possono generare dei sospetti.
Questo problema si risolve attraverso i cosiddetti protocolli di autenticazione, SPF, DKIM e DMARC, che certificano che anche il server del vostro Email Service Provider è autorizzato a scrivere a nome vostro, quindi la newsletter che spedite con MailChimp l’avete proprio mandata voi.
Nella pratica, questo si traduce in una variazione dei DNS del vostro dominio, una questione tecnica che, se sapete come funzionano i DNS di un dominio, potete fare tranquillamente da soli, altrimenti chiedete al vostro o alla vostra webmaster e vi mette a posto le cose in un attimo.
I fattori che vi aiutano ad arrivare a destinazione sono anche gli stessi che vi faranno ottenere risultati migliori: