Questo è il secondo anno in cui faccio il mio volontariato digitale nella scuola di mio figlio insieme a Paolo Ballanti, anche lui genitore nella stessa scuola, che aveva iniziato un anno prima di me trattando soprattutto il tema della cyber security.
L’anno scorso abbiamo incontrato i genitori e lavorato in classe con tutti gli alunni dalla seconda elementare alla terza media; quest’anno, oltre a riproporre l’incontro coi genitori, abbiamo concentrato il lavoro sui ragazzi delle medie e abbiamo anche dedicato un pomeriggio agli insegnanti.
Qui voglio condividere i materiali e le fonti che abbiamo utilizzato, con alcune riflessioni per chi si trovi a fare attività del genere.
Anche se a scuola io e Paolo siamo stati presentati come “gli esperti”, a entrambi è sempre stato molto chiaro che non abbiamo in tasca risposte definitive, stiamo anche noi imparando sulla nostra pelle, navigando a vista, interrogandoci sul presente e ancor di più sul futuro.
Cerchiamo di contribuire alla costruzione di uno spirito critico e della capacità di leggere la realtà e agirla; il DQ Project di cui parlo sotto ha coniato la definizione di intelligenza digitale come “la somma di abilità sociali, emotive, cognitive essenziali per la vita digitale” , ma io toglierei l’aggettivo digitale, per me stiamo parlando di saper vivere nel presente.
Non credo sia necessario rimarcare la necessità di affrontare questi temi; suggerisco piuttosto di leggere questo articolo di Marco Nurra su ValigiaBlu che parla del DQ Project, un progetto didattico molto completo che definisce l’intelligenza digitale come una competenza multifattoriale. Io ne ho riassunto gli elementi principali in:
Nell’illustrazione qui sotto (fonte: DQ Institute) il dettaglio delle varie componenti:
Ragionare di questi temi coi genitori è necessario perché molti adulti vivono con disagio il fatto di sentirsi inadeguati e inesperti rispetto a una tecnologia che per loro è relativamente nuova e difficile da capire, mentre bambini e ragazzi la danno per scontata, il che tuttavia non significa che la sappiano usare bene.
È importante dare elementi di conoscenza su come funzionano le piattaforme digitali a partire dal loro modello di business, affrontando anche temi come profilazione e retargeting, per aumentare la consapevolezza di come cediamo informazioni su di noi in cambio di utilità e servizi e di come funziona quella che ho definito la trappola dell’attenzione.
Un tema su cui insistiamo molto è quello dei termini di servizio dei social network. Ultimamente non ci sono più bambini che entrano su Facebook prima dei 13 anni mentendo sull’età, ma solo perché Facebook è diventato il bar degli anziani, e bambini e adolescenti ne stanno alla larga; in compenso molti di loro aprono Instagram prima dell’età prevista dai termini di servizio, per non parlare di WhatsApp che, alle medie, ha una copertura quasi totale. Qui ragioniamo insieme su come il concetto stesso di “termini di servizio” ci riporta al tema educativo delle regole (capirne il senso, stabilirle, chiederne il rispetto, dare l’esempio) e lasciamo un po’ di link di riferimento come la Guida a Instagram per genitori.
La questione della sicurezza informatica è un altro pilastro fondamentale: nelle nostre indagini informali con bambini e ragazzi abbiamo trovato tantissimi casi in cui i figli conoscono le password dei genitori, password peraltro tanto banali che basta poco sforzo per indovinarle. Noi:
Naturalmente parliamo anche di filtri e controlli parentali; non sostituiscono l’attenzione e la necessità di stare insieme ai figli quando iniziano a navigare e giocare online, né di definire regole sui tempi e sui luoghi, ma un po’ aiutano. Ecco alcuni link utili:
Il problema più grande, coi genitori, è che è difficile farli partecipare: per quanto la scuola sottolinei l’importanza del tema, sembra che trovare il tempo per due ore di chiacchierata insieme, in qualunque fascia oraria la si proponga, sia qualcosa che interessa non più del 10% degli adulti.
Lavorare coi ragazzi è faticoso ma anche divertente e istruttivo, io scherzando dico che per me è aggiornamento professionale sui comportamenti del pubblico più giovane. Il consiglio più importante che mi sento di dare è di farli parlare delle loro esperienze, di quel che è successo a loro e ai loro coetanei su WhatsApp, su Instagram, nei gruppi in cui giocano online, dei video che guardano su YouTube, di quello che fanno su Musically TikTok.
Hanno mai letto i termini di servizio? Il loro profilo è privato? Gli è mai capitato che qualcuno abbia diffuso una loro foto o un video che non gli piaceva? Come si sono sentiti? Come è andata a finire? Come si sentirebbero se qualcuno rendesse pubblico qualcosa che hanno condiviso in privato?
Per loro è del tutto ovvio che il digitale è una delle tante dimensioni della loro vita di relazione (cosa che invece è ancora da spiegare a molti adulti), solo che, data l’età, non sempre riflettono sulle implicazioni possibili delle proprie azioni.
Una risorsa preziosa e ricchissima di spunti di riflessione e anche di attività, materiali e link utili è tutto il progetto Parole Ostili; nel sito c’è un’area di materiale didattico da cui abbiamo attinto a piene mani, oltre che presentare e discutere insieme il Manifesto della comunicazione non ostile.
Proprio sulle schede didattiche di Parole Ostili abbiamo scoperto i video della mini-serie I Super Errori, presi dal progetto Generazioni Connesse; li abbiamo usati come traccia per il lavoro coi ragazzi delle medie, e mi sento di consigliarli perché hanno funzionato benissimo.
Un tema su cui abbiamo insistito molto è quello della reputazione digitale: come dice uno dei punti del Manifesto della comunicazione non ostile, le parole che scegliamo ci raccontano e ci rappresentano. Abbiamo mostrato alcuni commenti presi da pagine Facebook pubbliche e riflettuto insieme su che idea ci facciamo dei loro autori.
Abbiamo anche parlato di attenzione e concentrazione mostrando uno studio recente della University of Texas at Austin sul brain drain, l’effetto degli smartphone sulla nostra capacità di concentrazione e di soluzione di problemi.
A tre gruppi di studenti sono stati assegnati dei compiti che richiedevano concentrazione e misuravano le capacità cognitive dei partecipanti; ai membri del primo gruppo è stato chiesto di lasciare gli smartphone fuori dalla stanza, al secondo di tenerli chiusi nella borsa, al terzo di lasciarli sul tavolo (magari girati con lo schermo all’ingiù).
I risultati dei test mostrano un peggioramento progressivo dei risultati dal primo al terzo gruppo: in pratica, se vogliamo concentrarci davvero, il telefono lo dobbiamo tenere da un’altra parte, lontano dagli occhi lontano dal cuore.
It doesn’t matter whether a person’s smartphone is turned on or off, or whether it’s lying face up or face down on a desk. Having a smartphone within sight or within easy reach reduces a person’s ability to focus and perform tasks because part of their brain is actively working to not pick up or use the phone.
“It’s not that participants were distracted because they were getting notifications on their phones. The mere presence of their smartphone was enough to reduce their cognitive capacity.”
Ecco, tutti sapevano benissimo di cosa stavamo parlando, per primo mio figlio che ogni tanto pretenderebbe di essere in grado di fare i compiti mentre con la coda dell’occhio guarda un video su YouTube.
Una persona che consiglio di seguire perché dà sempre spunti interessanti e utili è Alberto Pellai: in questo suo post Facebook il racconto di un’attività illuminante condotta con bambini di 5a elementare, sulle conversazioni in chat.
Come scrivevo all’inizio, questo è il secondo anno in cui facciamo questa esperienza a scuola, e, quando abbiamo iniziato a ragionare su cosa proporre quest’anno per non ripeterci, una delle prime cose che ci siamo detti è che era arrivato il momento di passare il testimone agli insegnanti.
L’esperto (o presunto tale) che arriva a scuola da fuori può avere il ruolo di catalizzare l’attenzione e rompere la monotonia delle lezioni, ma una didattica delle competenze digitali deve necessariamente passare dalla scuola stessa, e ormai non ci sono più scuse della serie “non siamo preparati per farlo”, perché, come si può vedere anche da tutti i link che ho elencato finora, c’è tantissimo materiale a disposizione di chi vuole usarlo. Anche io e Paolo del resto mica ci siamo inventati niente, ma abbiamo preparato gli incontri usando video, articoli e spunti di riflessione trovati navigando a partire da alcuni nodi-chiave, primi fra tutti Parole Ostili e Valigia Blu.
Così abbiamo proposto alla scuola di fare un incontro con gli insegnanti e in questo incontro abbiamo ragionato insieme a loro di temi molto simili a quelli di cui parliamo coi genitori: sicurezza, uso dei filtri, età in cui i ragazzi iniziano ad avere accesso a contenuti e piattaforme, come funzionano i social network, overload informativo.
Sono emerse questioni educative importanti: la percezione di sé in un’epoca dominata dalle immagini, l’approccio ai sentimenti e alla sessualità, il riconoscimento del valore della competenza, la difficoltà crescente di applicarsi ad attività di studio che richiedono concentrazione e costanza.
Abbiamo anche ragionato sulle opportunità di uso di tool e piattaforme per progetti didattici; ho citato ad esempio la classe del liceo scientifico Righi che usa Instagram per lavorare su arte, storia, letteratura, è uscita l’idea di lavorare coi ragazzi sulla manipolazione delle foto e su come questa ci condiziona, e, dato che nella scuola si lavora molto sull’interdisciplinarietà e sul multilinguismo, noi abbiamo lanciato l’idea di sperimentare DQWorld, il gioco interattivo creato dal DQ Institute per valutare e far crescere l’intelligenza digitale: sono 5 sessioni di lavoro di due ore circa, che possono essere distribuite fra diverse materie e offrire spunti per altri approfondimenti.
Nessuno di noi ha in tasca le risposte: al massimo possiamo dare un contributo di conoscenza e di (maggiore) esperienza perché negli ultimi vent’anni, invece di resistere davanti al nuovo, l’abbiamo esplorato con curiosità e ne abbiamo fatto (anche) il nostro lavoro. Ma essere cittadini consapevoli in un mondo digitale è una responsabilità di tutti e conviene a tutti: io lo faccio soprattutto per egoismo, perché vorrei intorno a me un mondo un po’ migliore di quello che vedo.