Alcune riflessioni dopo il LeWeb London dedicato a digital hippies e sharing economy
Uno dopo l’altro gli attori tradizionali dello scenario socioeconomico italiano (sindacati e varie associazioni di categoria) alzano i propri lamenti azzardando stime su “quanti anni ci vorranno per tornare ai livelli di <occupazione – consumi – crescita> pre-crisi”.
La mia personale previsione è questa: niente tornerà più come prima.
E non lo dico in tono di lamento, anche se non sono così superficiale da pensare che sia solo un bene. Ma in mezzo a questo travaglio, illudersi di “tornare a com’era prima” è vano e controproducente: ci sono nuovi equilibri da costruire, facendo attenzione a non farsi (troppo) male.
In uno dei migliori contributi ascoltati a LeWeb London, Jeremiah Owyang ha esordito affermando che, se qualcuno pensa che la collaborative economy sia una moda temporanea destinata a passare, sbaglia completamente, perché ciò che sta succedendo ha le sue radici in irreversibili mutamenti sociali, economici e tecnologici.
La crisi economica ci ha fatto ricordare che forse non è indispensabile comprare l’ennesimo maglione quando il nostro armadio è pieno di capi che, in gran parte, indossiamo una volta e mai più: e quando cominci a chiederti, prima di ogni acquisto, “mi serve davvero?”, finisci per comprare molto di meno, e scoprire che puoi lo stesso godere di esperienze gratificanti e ricche, magari anche imparando a fare da solo cose che prima avresti acquistato già pronte.
La connettività veloce e immediata ha reso infinitamente più semplice
Esempio #1. Poche settimane dopo che mio figlio aveva iniziato le elementari, io ero già amica su Facebook di un quarto degli altri genitori, e avevamo tutti gli indirizzi email di tutti gli altri; è stato molto semplice organizzare (spesso al posto della scuola, che ha sempre meno risorse e spunti) visite guidate, attività nei weekend, l’acquisto di un computer nuovo in sostituzione del ferrovecchio che era in classe.
Esempio #2. Nei giorni scorsi si è svolta a Marina Romea la seconda edizione del Freelancecamp, un evento low-budget ad altissimo contenuto di condivisione e contenuti, che io, Miriam e Gianluca abbiamo organizzato a distanza, mettendo a frutto la potenza di alcuni strumenti (le nostre email, un blog WordPress, i nostri profili Twitter e Facebook, un account MailChimp un paio di documenti GDoc condivisi, e il servizio di ticketing online Smappo) e la nostra capacità di usarli al meglio e di integrarli in un progetto: il ticket di iscrizione al Freelancecamp costava neanche 5 euro, ma quel che si sono portati a casa i partecipanti in termini di idee, incontri, emozione, vale molto di più.
La condivisione e lo scambio sono una soluzione obbligata nel momento in cui arriviamo a quella che gli ecologi definiscono la carrying capacity dei sistemi: se l’armadio ti scoppia di roba, inizi a regalare / scambiare / vendere i vestiti e le borse che non usi; se le strade cittadine sono intasate di auto, sempre più costose in termini di carburante, pedaggi e parcheggi, conviene noleggiare o l’auto o il servizio di trasporto solo quando serve davvero.
In questo scenario, l’unica strategia evolutiva sensata è adattarsi velocemente al cambiamento. Owyang portava ad esempio nel suo intervento Federico VII, sovrano del regno di Danimarca, che a metà dell’800 trasformò la Danimarca da monarchia assoluta a monarchia costituzionale, acconsentendo alle richieste che venivano dalla società, mantenendo – anzi rafforzando – il consenso sulla monarchia, e riuscendo a governare il cambiamento senza esserne travolto.
Io più prosaicamente penso ad aziende automobilistiche che, invece di sforzarsi di vendere più auto in un mercato più che saturo, creano servizi di noleggio frictionless, come il Car2Go di cui mi raccontava Luca che lo usa regolarmente a Vienna:
Confrontatelo con la trafila di un normale noleggio auto in Italia, o con i costi di un taxi per andare in aeroporto, e ditemi se vi viene voglia di tornare a “com’era prima”.
Sono convinta che le persone continueranno a comprare, ma scegliendo meglio e imparando a valutare per cosa veramente vale la pena di spendere: quindi, per vendere, sarà cruciale “dare valore”, e far pagare solo per quel valore, riducendo all’essenziale il resto.
Se analizzo il successo dei nostri corsi Digital Update, sono convita che in buona parte dipenda da alcune scelte che io e Gianluca abbiamo fatto:
Non per tutti la transazione è indolore. Se ogni auto condivisa ne sostituisce sette vendute, ci saranno stabilimenti che chiuderanno, e nel breve termine questo è un problema. Se per andare a Londra cerchiamo una camera su AirBnB o ci affidiamo al couchsurfing, un hotel venderà qualche notte di meno.
E ogni disintermediazione, partecipazione diretta, creazione di legami fra pari, indebolisce le grandi sovrastrutture sociali ed economiche che negli ultimi secoli hanno governato e definito le nostre vite: i grandi poli dell’informazione, le big corporations, le istituzioni accademiche, lo stato stesso, che, quando le persone scambiano invece di acquistare, incassa meno tasse.
Del resto, la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo è figlia di un movimento di pensiero che parte negli anni ’60 e ’70, e che ha come tratto più distintivo un radicale individualismo che si oppone al controllo istituzionale. Andatevi a leggere la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspace di J.P.Barlow, e, per un’analisi più articolata, “The End of Big” di Nicco Mele: coi nostri smartphone che ci permettono di connetterci ovunque siamo, pubblicare foto dei nostri piedi nudi sulla sabbia, irridere le convenzioni e scambiare idee e risorse senza formalità, siamo davvero un po’ tutti dei digital hippies.
[update: quasi in contemporanea con la pubblicazione del mio post, Jeremiah Owyang ha pubblicato The Dark Side to the Collaborative Economy, un’analisi dei fattori che fanno o generano resistenza alla sharing economy]
Nel suo libro Mele ci ricorda che la radicale redistribuzione di opportunità che è in corso porta con sé anche dei rischi: può generare disgregazione, abbassare i nostri livelli di sicurezza, mettere in mano strumenti potentissimi a persone senza scrupoli o quantomeno senza la capacità di governare gli effetti delle proprie azioni.
L’unico antidoto possibile è agire il cambiamento aumentando il nostro livello di consapevolezza:
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Niente sarà più come prima, necessariamente. In viaggio alla ricerca di nuovi modi di operare e di strade alternative che ci conducano all’innovazione radicale, puntando su: una conoscenza generativa che porti a modelli replicabili e commercializzabili. Questo il messaggio trasmesso ieri dal Prof. Enzo Rullani nell’ambito della presentazione Percorsi erratici alla Camera di Commercio di Forlì. Insomma…non resta che partire con energia e sorriso.
condivido in pieno la tua analisi e a anch’io sono dell’idea che nulla sarà più come prima per le ragioni che hai indicato.
sono d’accordo sugli aspetti positivi e le utili ricadute sulla nostra quotidianità.
Mi chiedo solo quale sarà il prezzo che dovremo pagare per questa nuova rivoluzione economica-sociale-culturale.
Hai appena accennato e, secondo me, un po’ sottovalutato, gli aspetti negativi di questi cambiamenti: in una situazione come questa quante aziende chiuderanno? quante persone perderanno il lavoro? quali saranno le conseguenze sociali ed economiche? forse sono le stesse domande che si facevano i sociologhi all’inizio della rivoluzione industriale quando le macchine cominciarono a sostituire la manodopera….da allora in effetti il mondo si è evoluto….troveremo le strategie giuste per saper gestire anche questa nuova sfida…speriamo!
Maurizio, siamo solo agli inizi di una rivoluzione, che come tutte le rivoluzioni avrà le sue vittime; ne sono ben consapevole e non voglio sottovalutare niente. Non do nemmeno per scontato che tutto andrà meglio: se ti capita di leggere il libro che cito nel post, The End of Big, vedrai che anche Nicco Mele mette in guardia rispetto a vari rischi – anarchia, nuovi autoritarismi, crollo dei sistemi tradizionali di protezione sociale -. Credo che l’unica carta che abbiamo sia provare a giocarcela, nel modo migliore possibile, per fare aumentare il benessere (da non confondere con il PIL) e la democrazia. L’aspetto positivo che vedo è che abbiamo molto più potere fra le mani, e se sappiamo giocarcelo bene, se abbiamo la velocità e la leggerezza per giocarcelo bene, possiamo fare la differenza.
Anche io condivido completamente quanto scritto nel tuo articolo.
Tuttavia, pur essendo un sostenitore del noleggio, del consumo condiviso e di tutte le altre strategie e tecniche che consentono uno sfruttamento più corretto delle risorse, mi chiedo quanto, nel nostro paese, ci stiamo davvero incamminando su questa strada.
Da un lato, ad esempio, uso spesso le bici del bike sharing di Milano, che avranno anche qualche difettuccio, ma sono all’altezza di un confronto internazionale con altre città.
Ma dall’altro, uscendo dal mio vissuto personale, penso alla cultura tipica dell’italiano medio, per il quale la macchina è uno status symbol irrinunciabile, o all’altrettanto simbolico valore della casa di proprietà, o ancora all’ironia di possedere così tante cose da dover prendere – a noleggio – spazi per stoccarle…
Mi chiedo quanto ci vorrà per fare questo salto di mentalità.
Vedo per questo come un bel segnale la nascita di siti come LocLoc.it o Ozizu.it, che si propongono come una sorta di eBay del noleggio per i privati, e spero che non restino fenomeni di nicchia.
Oliviero