Aspetta, posso spiegare. In questi anni sull’email marketing ho scritto libri, ne ho parlato per centinaia di ore a lezione, sono stata intervistata, ho tenuto speech applauditi e fatto consulenze al termine delle quali i clienti mi pagano col sorriso sulle labbra. E tuttavia, sono sempre più convinta che l’espressione “email marketing” sia inesatta e fuorviante, come del resto “social media marketing”, “digital marketing” e via andare.
L’insieme delle attività che per convenzione raggruppiamo sotto l’etichetta di email marketing è un contenitore tanto generico che dentro ci possiamo mettere cose enormemente diverse fra loro: newsletter periodiche di informazioni, offerte del giorno o della settimana, email transazionali che scattano all’abbandono del carrello o un mese dopo l’acquisto; ciascuna di queste è parte di una strategia più ampia, in cui le email rappresentano uno dei punti di contatto fra l’azienda (*) e i suoi clienti (**).
(*) Azienda / Associazione / Professionista / Candidato / Artista / Esperto
(**) Clienti / Soci / Prospect / Elettori / Fan / Lettori
L’ho sempre saputo e sostenuto, anzi stavo approfittando dell’estate per riorganizzare completamente il programma dei miei corsi di email marketing: dallo schema Persone >> Obiettivi >> Strategia >> Strumenti >> Esecuzione, a una sequenza che più o meno funzionerà così:
Si tratta di un programma a cui viene comodo, per rapidità e per beceri motivi di SEO, attaccare l’etichetta “email marketing”, salvo poi iniziare la lezione chiarendo subito che la strategia di marketing deve avere un orizzonte molto più ampio di quello che sta fra due server di posta.
Stavo appunto pensando a come spiegare tutto questo e, con già in testa la sequenza delle cose da dire e delle slide, mi sono imbattuta in un articolo (grazie Piero Tagliapietra per averlo linkato) il cui titolo è tutto un programma, “How Google Analytics ruined marketing”.
No, o forse nì, ora mi spiego meglio. L’autore dell’articolo, Samuel J. Scott, ce l’ha evidentemente coi digital marketer, e si vede benissimo (o forse io mi sento messa in mezzo e quindi avverto la sua palpabile ostilità).
Questi sarebbero un branco di dilettanti che nulla sanno dei fondamenti del marketing, colpevoli di dare importanza solo a ciò che sono in grado di misurare: le varie forme di online marketing che hanno come esito un’interazione tracciabile all’interno di un sito web o di una app.
La piattaforma quasi universalmente usata per tracciare e misurare queste interazioni, Google Analytics, ha secondo Samuel J. Scott una pesante responsabilità: quella di avere imposto come chiave di lettura delle attività di marketing online non già le strategie, ma i canali. In questo framework di analisi, sia che una visita arrivi da una DEM, o da un ciclo di email costruito a mo’ di corso, o da un messaggio che segue l’abbandono del carrello, tutto finirà nel calderone del “canale email”, di cui valutiamo le performance confrontandole con quelle di altri canali (la ricerca, le visite dirette, i social), dimenticandoci le motivazioni reali che hanno generato ciascun contatto.
Insomma, dice Samuel J. Scott, torniamo a occuparci di strategia, e smettiamola di ossessionarci coi canali e coi mezzi: questi vengono dopo, sono una conseguenza delle scelte strategiche, e, data una certa strategia, in gran parte dei casi la porteremo avanti contemporaneamente su mezzi e canali diversi.
Touchée. Mi dichiaro colpevole, vostro onore, mi è capitato più di una volta di ragionare partendo dal report “canali di acquisizione” di Analytics. Invoco però le attenuanti, perché mi è sempre stato chiaro – e non ho mai mancato di ribadirlo a clienti. corsisti e lettori del blog — che a monte di tutto dobbiamo avere una strategia, di business e di vita prima ancora che di marketing.
Aggiungo anche che a volte la riduzione delle analytics ai loro minimi termini, quasi una banalizzazione, serve a far capire l’importanza di darsi obiettivi chiari e misurabili a gente che spesso non misura proprio niente, ma prende decisioni sulla base del “qui abbiamo sempre fatto così”.
C’è stato un momento in cui aveva senso parlare di email marketing in sé: così come lo ha avuto per tutti i media digitali, nella fase in cui erano tanto nuovi che il solo fatto di usarli era strategia, perché significava posizionarsi come pionieri in territori ancora tutti da esplorare ed essere i primi a segnare i percorsi e definire gli standard.
Ci si distingueva per il fatto di avere un sito o un blog, di vendere online, di stare su Facebook e Twitter, e anche di mandare una newsletter. È stato bello per chi l’ha fatto bene e fra i primi, ma oggi niente di questo basta più, anzi, farlo tanto per fare rischia di drenare risorse da attività più utili.
Così, dico spesso ai miei corsisti che se usciranno dall’aula pensando che non devono fare nessuna newsletter e che “l’email marketing non fa per noi”, avranno comunque investito bene i loro soldi e il loro tempo, perché potranno concentrare le loro risorse su attività più strategiche per loro.
E tuttavia, chi sa integrare bene le email nel customer journey dei suoi potenziali clienti ha in mano uno strumento estremamente versatile, in grado di raggiungere potenzialmente ogni persona che abbia accesso a Internet e che, benché sia nato ai tempi del desktop, si adatta perfettamente alle modalità di relazione azienda-cliente dell’era mobile.
Ma per ottenere risultati non basta più l’improvvisazione: servono una strategia solida e un’esecuzione altrettanto eccellente, ed è per questo che occorre conoscere bene le specificità di questo medium, studiare gli esempi buoni e quelli cattivi, essere aggiornati su requisiti tecnici in costante evoluzione.
Anche perché, checché ne dica Samuel J. Scott, se è vero che i mezzi non sono la strategia è altrettanto vero che le potenzialità e i vincoli di ciascun mezzo mettono a disposizione della strategia opportunità ben diverse.
Quindi ora torno al lavoro, sulle slide dei prossimi corsi e soprattutto sugli script del corso di MailChimp in video che inizio a girare questa settimana (sì, ci sono voluti anni per mettermi “davvero” al lavoro, ma adesso ci siamo).
Ci sentiamo presto!