[questa è il primo di una serie di due post, il discorso è troppo lungo per propinarvelo tutto in una volta – la seconda puntata è qui]
Ho passato una serata a parlare di uso consapevole della rete insieme a un gruppo di genitori, i papà e mamme dei bambini che sono nel branco lupetti insieme a mio figlio.
Il tema mi sta molto a cuore, perché – soprattutto da quando ho un figlio – tocco con mano ogni giorno quanto sia diffuso, nella fascia di età dai 35-40 anni in su, un atteggiamento di diffidenza e paura nei confronti di Internet, che oscilla fra la rassegnazione (“siamo ormai tagliati fuori”) e il rimpianto di un passato spesso visto attraverso gli occhiali rosa del ricordo.
Su questo substrato, prosperano i venditori di paure: esperti (di tutto tranne che di rete) che lanciano anatemi contro i pericoli in agguato online, titoli ad effetto di giornali e telegiornali per i quali Internet è la causa di efferati delitti, dirigenti scolastici che diramano circolari terroristiche sui “rischi crescenti” dovuti alla diffusione delle “nuove tecnologie”.
Così, quando parlo di questi temi, il mio punto di partenza sono in genere le parole di Douglas Adams.
Per mio figlio, i computer e Internet sono un dato di fatto.
Allo stesso modo, per me e per i miei coetanei è assolutamente normale muoversi velocemente, lungo distanze anche notevoli, all’interno di scatole metalliche motorizzate (auto, treni, perfino aerei), o vivere ben oltre il termine dell’età fertile grazie a vaccini e antibiotici.
In realtà, il 99% di quel che ci sembra “naturale” non è altro che tecnologia, solo che è stata inventata prima di noi ed è in uso da un sacco di tempo.
Ricordo i miei anni del liceo, e i compagni che iniziavano a smanettare coi primi Commodore 64; più tardi, io fui la prima delle mie amiche a scrivere la tesi di laurea non con la macchina da scrivere, ma su un Mac Classic della biblioteca universitaria; e sì, avere imparato presto a usare un word processor e poi un foglio di calcolo fece di me una geek girl prima ancora che le GGD venissero inventate.
A un certo punto però sembra che a molti di noi si inceppi il meccanismo di accettazione del cambiamento. Io ricordo ancora mia nonna, a pranzo con noi la domenica, che non riusciva a parlare al telefono con sua figlia (mia zia) perché per lei era strano sentire la voce di una persona che non fosse lì, nella stessa stanza: il telefono era arrivato nella sua vita troppo tardi.
Io dell’arrivo del telefono in casa me ne ricordo: avevo circa sei anni, avere il telefono in casa non era ancora cosa da tutti, e prima di allora, se c’era bisogno di chiamare qualcuno in emergenza, mia madre andava a bussare dai padroni di casa che abitavano al piano di sopra. Pochi anni più tardi, quando da adolescente stavo delle mezzore a parlare con l’amica del cuore o il moroso, mia madre faceva la ronda avanti e indietro nel corridoio, alzando gli occhi al cielo e chiedendosi ad alta voce chissà cosa dovevamo dirci… più o meno con la faccia dei genitori odierni quando guardano i figli persi in chat. Poi si è abituata anche lei, e adesso mi tiene delle mezzore al telefono a raccontarmi le sue gite.
La diffidenza verso il nuovo, la paura del cambiamento, sono tutte reazioni naturali e comprensibili, ma stanno diventando disfunzionali perché il cambiamento accelera a un ritmo sempre crescente.
Se io, che non sono certo giovane, oggi faccio un mestiere che quando andavo a scuola non solo non esisteva, ma ben pochi avrebbero potuto immaginarselo, sono pronta a scommettere che così sarà per molti dei nostri figli: quando loro saranno adulti, il mondo sarà cambiato ancora più radicalmente di quanto sia cambiato dalla mia infanzia a oggi.
Questo grafico rudimentale, ispirato da un lungo e sorprendente articolo sull’evoluzione dell’intelligenza artificiale, mostra il tasso di evoluzione della tecnologia umana nel tempo (grazie a Marco Brambilla che mi segnala questi link).
Tim Urban, l’autore dell’articolo, spiega in modo illuminante la progressione a cui dobbiamo prepararci: immaginate, ci chiede, di avere a disposizione una macchina del tempo, e di andare nel passato – circa 250 anni indietro – e rapire un uomo della fine del ‘700, portandolo a vivere ai giorni nostri. Come reagirebbe il poveretto alla vista di capsule metalliche che sfrecciano sulle strade e in aria, gente che tiene in mano tavolette magiche in grado di catturare e riprodurre immagini e suoni, mappe che sanno dove siamo noi? Come potremmo spiegargli Internet, la Stazione Spaziale e tutto il resto? Al pover’uomo, come si dice, “gli scoppierebbe la testa”.
Ora, continuiamo a immaginare: il nostro uomo del ‘700, a malapena sopravvissuto per lo shock culturale appena vissuto, decide di rifarsi su qualcun altro; ruba la nostra macchina del tempo, torna ai suoi giorni, e poi viaggia altri 250 anni indietro per rapire un uomo del Rinascimento e portarlo alla fine del ‘700. Ma, con sua grande delusione, lo shock culturale a cui assiste è molto più blando di quello che ha appena vissuto lui: l’uomo del Rinascimento, per quanto sorpreso di alcuni avanzamenti tecnologici e sommovimenti geopolitici, viveva in una realtà tutto sommato non così diversa da morire per lo stupore. Per generare lo stesso effetto da “mi scoppia la testa”, il nostro uomo del ‘700 dovrebbe viaggiare all’indietro nel tempo fino a prima del 10.000 a.C., prima della nascita dell’agricoltura, prima che gli uomini diventassero stanziali e iniziasse a prendere forma il concetto stesso di “civiltà”.
E se l’uomo di 12.000 anni fa andasse indietro di altri 12.000 anni e riportasse ai suoi tempi un cacciatore-raccoglitore del 22.000 a.C, questi, trasportato nel 10.000 a.C., direbbe più o meno “embé? tutto qui quel che mi volevi far vedere?” Per generare un trauma paragonabile agli altri, il nostro uomo del Neolitico dovrebbe viaggiare all’indietro almeno 100.000 anni, fino a trovare qualcuno che non sa ancora dell’esistenza del fuoco, o della parola.
Così all’indietro; ma, se tanto ci dà tanto, allora noi ci troviamo veramente in quel punto del grafico in cui la curva del progresso tecnologico sta per impennarsi, perché più la tecnologia avanza più abbiamo strumenti raffinati e capacità di calcolo crescente che fanno sì che la tecnologia avanzi sempre più velocemente… mentre il nostro cervello ancora in gran parte neolitico si preoccupa a ogni variazione dello status quo.
Perciò è arrivato il momento di falsificare Douglas Adams, e abituarci a convivere con una tecnologia sempre nuova, cercando al tempo stesso di governare la direzione che essa prende; e, come genitori, di smetterla di auto-esiliarci dai luoghi in cui i nostri figli, inevitabilmente, stanno trasferendo parte della loro vita sociale, o insistere che “non è quella la vita reale”: lo è, e bisogna che dentro ci siamo anche noi.
Il primo passo per cambiare è demolire alcuni dei falsi miti che circondano la rete, e che ci impediscono di guardarla dalla giusta prospettiva.
Il primo falso mito è quello che dipinge l’online come un mondo distinto da quello l’offline, in cui le persone si comportano in modo diverso e fanno cose che altrimenti non sarebbero nella loro natura.
“Data science of the Facebook world” è un lavoro meraviglioso del 2013 in cui Stephen Wolfram analizza le reti sociali e le conversazioni di più di un milione di utenti Facebook. Fra i risultati che ne emergono, quelli che riguardano i temi di cui parliamo su Facebook sono illuminanti:
Risulta che – sorpresa! sorpresa!
Chi l’avrebbe mai detto? Proprio le stesse cose che ci diciamo nelle conversazioni a cena, in treno, alla macchinetta del caffè. Pare che andando online non ci trasformiamo in qualcun altro, ma continuiamo, con altri mezzi, la stessa vita di prima.
Nel suo “#Luminol – tracce di realtà rivelate dai media digitali”, Mafe de Baggis usa la metafora del liquido rivelatore di tracce organiche per spiegarci che internet non ha creato fenomeni come l’hate speech, o il discutere in modo superficiale di cose di cui non sappiamo quasi nulla, o il vantarci dei nostri successi soprassedendo sui fallimenti.
Semplicemente, lo specchio online ci mette davanti agli occhi la nostra umanità, senza che noi possiamo far finta di essere migliori.
E, che ci piaccia o no, anche se anche online tendiamo a far conversazione soprattutto con quelli con cui andiamo d’accordo, e nonostante Facebook e Google tendano a rassicurarci mostrandoci soprattutto i contenuti dei nostri “affini”, internet ci dà molte occasioni per uscire dalla nostra comfort zone e trovarci alle prese con qualcuno che la pensa in modo diverso da noi.
Un altro testo illuminante, soprattutto per chi ha a che fare con bambini e ragazzi, è “It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web”, la cui autrice Danah Boyd ha condotto una ricerca intervistando centinaia di adolescenti negli USA.
Da queste interviste emerge soprattutto che ai ragazzi, della tecnologia in sé, importa ben poco: per loro è soprattutto uno strumento per restare in contatto coi propri coetanei, in una realtà in cui le occasioni per incontrarsi “dal vivo” senza troppi adulti fra i piedi, in spazi pubblici e con tempi non segnati da impegni scolastici e parascolastici sono drasticamente ridotti rispetto al passato.
Così, se noi da ragazzini passavamo ore “sul muretto” a chiacchierare, ovviamente cambiando discorso non appena si avvicinava qualche adulto, i nostri figli viaggiano con l’autista da una casa a un’altra, dalla palestra alla scuola di musica, e le occasioni in cui possono sperimentare una socialità destrutturata, ma proprio per questo aperta alla sperimentazione della loro identità ancora confusa, sono sempre più spesso confinate negli spazi online: qui, su pagine Facebook spesso aperte, e probabilmente molto di più dentro alle chat private, vivono le chiacchiere che non si ha più il tempo o il permesso di fare di persona.
Nella rete dei nostri figli, la mappa delle relazioni riproduce la rete che esiste offline, si diventa amici su Facebook dei propri compagni di scuola, ci si fida o meno degli sconosciuti come lo si farebbe per strada, e le crisi, il bullismo, le persecuzioni che si manifestano in rete sono la conseguenza di problemi che nascono ben prima del login.
Per ogni cosa gratis, c’è sempre qualcuno che paga. È bene tenerlo presente, per regolare comportamenti e aspettative quando usiamo, senza pagare nulla, servizi la cui progettazione, realizzazione e mantenimento richiedono lavoro, tempo e denaro.
I modelli di business che possono sostenere il “gratis” sono, essenzialmente, tre (*).
Tutto quello che non ricade nei casi precedenti (film di prima visione in streaming gratuito, software normalmente protetto da licenza che puoi scaricare gratuitamente, e bazze simili) ha dentro qualcosa di poco legale: nei migliore dei casi, è una fabbrica di clic su annunci pubblicitari (quindi una truffa ai danni degli inserzionisti), in quelli più gravi maschera tentativi di buttarti dentro al computer software nascosto che farà danni a te o attraverso di te. Collega il cervello prima di cliccare.
(*) Ringrazio Sergio Cagol che mi ha fatto notare come alla versione iniziale di questo post mancasse la voce “raccolta e uso dei dati”
L’ultimo mito da sfatare è quello forse più pericoloso: i nativi digitali, che per qualche magia sarebbero nati imparati. “Appena vede uno schermo, prova a toccarlo per far scorrere le immagini!” – beh, anch’io a due anni quando mio padre tirava fuori l’auto ci salivo trovando la cosa del tutto normale, ma poi per imparare a guidarla – non solo a cambiare le marce e premere i pedali di gas e frizione, ma a stare nel traffico senza ammazzarmi o ammazzare qualcuno – ho fatto due mesi di scuola guida, e ore di prove con mio padre nel sedile di fianco.
L’abitudine a una tecnologia non corrisponde alla capacità di usarla, né tantomeno alla comprensione dei suoi meccanismi.
Se è vero che molti, alla domanda “usi Internet?” rispondono di no, salvo poi ammettere di usare Facebook o la posta elettronica, è drammaticamente vero che il problema non riguarda solo gli anziani. Quando mi capita di parlare coi ragazzi delle scuole superiori, le domande che in molti mi fanno rivelano un tasso di ingenuità e ignoranza tecnologica pari a quello dei loro genitori e nonni.
Certo, ci sono le eccezioni, come in tutte le fasce di età. Ma il problema di molti ragazzi è che tanti adulti danno per scontato che “i giovani sappiano già fare”, e questo da una parte li carica di una sicurezza mal riposta, e dall’altra li priva della possibilità di affidarsi a una guida più esperta per capire come muoversi nel contesto del mondo online.
E, senza dubbio, se un adulto rifiuta a priori di interessarsi a quel che avviene online, per un rifiuto ideologico di “questa” tecnologia, è chiaro che i suoi figli non vedranno mai in lui o in lei una possibile figura di riferimento a cui ricorrere quando ci sono dubbi o problemi.
Smontati i falsi miti che riguardano Internet, che fare?
Così come ci interessiamo di cosa succede a scuola, chiediamo com’è andata in palestra e agli scout, teniamo d’occhio i compagni e gli educatori dei nostri figli, allo stesso modo dobbiamo occuparci di quel che succede loro in quel luogo abitato che è la rete (come spiega molto bene Giovanni Boccia Artieri nel saggio e negli incontri che organizza)
[continua]
Non è più possibile commentare questo post
Mi è piaciuto molto questo post e non vedo l’ora di leggere quelli che seguiranno. Ho gradito in particolare quando hai parlato del progresso, di come per i giovani di oggi è normale una tecnologia che sarà invece qualcosa di stranissimo per noi quando saremo più anziani come lo è stato per i nostri nonni. Il mio blog ha l’obiettivo di creare consapevolezza su un uso appropriato di internet ed è molto bello leggere che anche qualcun altro se ne occupi. A presto :-)
Bellissimo post, non vedo l’ora di leggere il seguito!
[continua fra qualche giorno]
attendo impaziente, anche perché è gratis! :)
Però ringraziare anche -ma non solo- per il tempo speso a stendere queste righe di testo mi pare il minimo.
Internet non è gratis, o meglio: quasi mai, se non quando ci si riesce ad agganciare ad una WiFi aperta :)
Bellissimo questo post, anch’io non vedo l’ora di leggere il seguito!
dovrebbero leggerlo tutti i genitori over 40 :) (io ne ho 37 e lavoro con il web quindi so e approvo)
la percezione sui ‘nativi digitali’ e su ‘come sono intelligenti i bambini di oggi signora mia’ è quella che mi irrita maggiormente: ed è detto da gente che in effetti è poco sveglia, di solito. Ma è un “poco sveglia” che prescinde dall’età e dal periodo storico nel quale sono nati…. :)
Post notevole da distribuire nelle scuole durante gli orientamenti con i genitori.
Attendiamo con trepidazione la seconda parte
Non sono madre (ma zia acquisita di una tripletta di bambini). Credo che questo articolo e i seguenti finiranno dritti dritti in condivisione con i genitori dei pargoli :)
In ogni caso spero di superare i 35 anni senza chiudere la mente alle novità!
Un giorno, intorno alla fine degli anni ’90, mio nonno (classe 1909)mi telefona e mi dice che stava leggendo il giornale e c’era un articolo che non riusciva a capire perché citava spesso internet e lui non sapeva cos’era internet.
“Mi spieghi tu cos’è sto internet?” mi fa.
Panico.
Gli ho detto:
“Nonno, metti su il caffè che arrivo”.
Ci siamo fatti una lunga chiacchierata, non so se alla fine riuscii a spiegarmi, ma è un ricordo bellissimo che porto nel cuore.
Bellissimo post, aspetto il seguito!
Complimenti! Bellissimo articolo!
Interessante, chiaro, esaustivo! Davvero un’ottimo articolo! Complimenti.
Ciao Alessandra, GRAZIE per aver affrontato questi temi che a volte vengono un poco tralasciati perché si pensa che alle nuove generazioni non vada insegnato nulla tanto da confonderli con “nativi digitali”; sarà anche vera una parte di questa affermazione ma non del tutto: è la formazione e l’educazione che stanno a monte che portano serenità, utilizzo corretto … al futuro! ;)
Buona giornata a tutti, Fabius
Ciao Alessandra, sono una psicoterapeuta che gestisce un blog. Farò una conferenza a Milano dal titolo “il potere della condivisione” sull’uso della rete in area psicologica. Vorrei mettere le tre foto sulla legge del progresso secondo Douglas Adams, ovviamente citandoti. Mi farebbe piacere però avere il tuo assenso!
Nicoletta